Pinkwashing ai tempi del Pride: tra arcobaleni, marketing e vera solidarietà
Published: 09.05.2025

Il Pride è politico. Ciò che iniziò come una rivolta contro la violenza della polizia allo Stonewall Inn è oggi, in molti luoghi, una celebrazione della diversità. Le persone LGBTQIA+ di tutto il mondo celebrano a giugno – e spesso anche oltre – la propria identità, visibilità e i propri successi. Ma dove c’è festa, c’è anche business. E dove circola denaro, non tardano ad arrivare aziende e organizzatori di eventi. Il risultato? Una tendenza sempre più evidente negli ultimi anni: il pinkwashing.

Il pinkwashing è la pratica di mostrarsi LGBTQIA+-friendly senza un reale impegno o azioni concrete. È un uso superficiale dei simboli arcobaleno a fini commerciali, spesso privo di contenuto o convinzione. Questa strategia raggiunge il suo apice durante il Mese del Pride – ed è proprio in questo periodo che nascono anche le critiche. Sempre più persone si chiedono: chi ci sostiene davvero? E chi lo fa solo quando l’arcobaleno porta profitto?

Quando l’arcobaleno diventa una strategia di marketing

Il pinkwashing si riconosce facilmente, se si sa dove guardare. Non si tratta solo di colori visibili, ma dell’intenzione che c’è dietro e delle azioni che seguono. Un’azienda che colora il proprio logo a giugno ma non ha personale LGBTQIA+, né politiche interne inclusive, probabilmente non agisce per solidarietà ma per marketing.

Un esempio tipico: un operatore turistico offre “Rainbow Tour” durante la settimana del Pride – passeggiate, escursioni, tour gastronomici – con una comunicazione vivace e colorata. Ma se si osserva bene, non c’è alcun collegamento reale con la comunità queer locale: nessuna collaborazione con associazioni LGBTQIA+, nessuna parte dei proventi destinata a progetti queer, nessun contenuto culturale o storico.

Lo stesso vale per negozi o locali che, solo durante la Pride, espongono bandiere arcobaleno o vendono cocktail a tema – ma che il resto dell’anno non mostrano alcun tipo di impegno con la comunità. Nessun personale LGBTQIA+, nessuna formazione inclusiva, nessuna iniziativa solidale. Questo è pinkwashing – anche se in formato “locale”.

Perché il pinkwashing è dannoso per la comunità

All’apparenza, la visibilità può sembrare positiva. In fondo, è bello vedere i colori del Pride ovunque… giusto? Sì, ma la visibilità senza responsabilità non basta. Il pinkwashing svuota di significato un movimento nato dalla protesta, dall’attivismo e dalla lotta per i diritti. Trasmette l’idea che l’uguaglianza sia stata raggiunta, mentre molte persone LGBTQIA+ vivono ancora discriminazioni e disuguaglianze.

Peggio ancora: il pinkwashing distoglie risorse e attenzione da chi lavora veramente per la comunità. Iniziative locali, organizzazioni senza scopo di lucro, artistə queer e progetti sociali agiscono ogni giorno – spesso con risorse minime – per creare spazi sicuri e generare cambiamento. Quando aziende ed eventi si appropriano del Pride senza restituire nulla, il Pride diventa una vetrina commerciale, non uno strumento di liberazione.

Il turismo del Pride: tra opportunità e superficialità

Il turismo LGBTQIA+ è in forte espansione. Molte persone viaggiano per partecipare a grandi eventi Pride – a Berlino, Madrid, Tel Aviv o a Gran Canaria, dove si svolgono più settimane di Pride ogni anno, specialmente a Maspalomas. Ed è fantastico: è bello festeggiare insieme, sentirsi al sicuro, visibili, parte di una comunità globale. Ma anche in questo caso, è giusto chiedersi: chi ci guadagna davvero?

Alle Canarie – come in altre destinazioni molto frequentate – esistono realtà che organizzano eventi, tour o feste “Pride” rivolti soprattutto a un pubblico turistico. In alcuni casi, manca un legame concreto con la comunità LGBTQIA+ locale: niente collaborazione con associazioni queer, nessun sostegno a progetti locali, nessuna narrazione di contenuti culturali. L’intrattenimento è al centro, mentre le questioni sociali passano in secondo piano. Questo non significa che ci sia cattiva volontà – ma durante il Pride è utile osservare se un’offerta è veramente radicata nella comunità o meno.

Il fenomeno è ancora più evidente in quei negozi o locali che espongono simboli arcobaleno solo durante la Pride Week, vendono gadget o drink tematici per approfittare del momento – ma che, durante l’anno, non mostrano alcun interesse o vicinanza reale alla comunità. In questi casi, i simboli perdono autenticità.

Come riconoscere un impegno autentico?

Per fortuna, esistono segnali chiari che distinguono il pinkwashing dall’impegno autentico. Basta guardare con attenzione.

Un primo segnale è la continuità dell’impegno. Chi si mostra “inclusivo” solo a giugno ma resta in silenzio il resto dell’anno non è un alleato. Le attività che assumono personale queer, utilizzano linguaggio inclusivo, trattano temi LGBTQIA+ e applicano politiche interne contro la discriminazione, dimostrano coerenza.

Altro elemento chiave: la trasparenza. Dove vanno i ricavi? Ci sono collaborazioni con organizzazioni queer? L’offerta include contenuti culturali o storici? O è tutto solo marketing?

Infine, chiediti: Chi c’è dietro? Le persone LGBTQIA+ sono coinvolte? Partecipano attivamente? Ne traggono beneficio? Oppure vengono solo usate come immagine?

Esempi positivi a Maspalomas: dove l’inclusione è reale

Questo articolo offre una riflessione generale sul pinkwashing nel contesto globale. Non vuole essere una critica contro specifici eventi o imprese. Anzi, proprio a Gran Canaria – e in particolare a Maspalomas – ci sono tanti esempi virtuosi di come il turismo, la Pride e la comunità possano convivere in modo autentico.

Nel Centro Yumbo, molti bar, negozi e ristoranti sono gestiti da persone LGBTQIA+, e l’inclusione si vive ogni giorno. In queste realtà, lavorano insieme persone queer e etero, senza tensioni, in un clima di rispetto e naturalezza. Non serve esibire bandiere o slogan per dimostrare inclusione, perché qui è normale, è quotidiano. E funziona: molti di questi locali hanno successo perché sono autentici, non perché fanno marketing arcobaleno.

Anche le grandi imprese hanno un ruolo. In Spagna, le aziende con più di 50 dipendenti sono obbligate per legge ad avere un piano di diversità. Questo obbligo legale sta già portando risultati: alcuni hotel a Gran Canaria hanno introdotto formazioni, linee guida anti-discriminazione e personale queer visibile anche al di fuori del periodo Pride.

Queste strutture, questi valori, queste persone meritano sostegno concreto, soprattutto durante la Pride, quando aumentano attenzione e incassi. Sono loro che rendono la comunità visibile e viva tutto l’anno – non solo quando le strade sono colorate.

Cosa puoi fare tu?

La buona notizia è che tutti possiamo fare qualcosa contro il pinkwashing. Basta un po’ di consapevolezza, e piccole scelte quotidiane possono fare la differenza:

Sostieni le imprese locali gestite da persone LGBTQIA+. Che sia un bar, un negozio, un tour, un centro culturale – il tuo contributo avrà un impatto reale nella comunità.

Fai domande. Chi organizza l’evento? Dove vanno i proventi? Ci sono collaborazioni con progetti queer? Chi ci guadagna?

Diffida di chi usa l’arcobaleno solo a giugno. Se un’attività si mostra “LGBT-friendly” solo durante la Pride Week, è legittimo avere dei dubbi.

Dai voce alla comunità. Condividi esperienze, consiglia progetti, promuovi attività autentiche – anche quelle meno visibili.

Festeggia – ma con coscienza. Il Pride è anche gioia e festa. Ma non dimenticare mai da dove viene, né per chi e per cosa continua a esistere.

Conclusione: Il Pride non è una campagna – è un movimento

Il pinkwashing non è solo una moda. Svuota di significato un movimento nato dalla lotta, riduce l’identità queer a una strategia di marketing e toglie spazio alle vere rivendicazioni.

Ma sta a noi decidere come reagire. Scegliendo con attenzione, facendo domande, sostenendo chi lavora davvero per la comunità, possiamo mantenere vivo lo spirito autentico del Pride.

Gran Canaria è un esempio concreto di come si possa fare diversamente. Osservare oltre le apparenze, sostenere con consapevolezza e scegliere chi è realmente impegnato è già un atto politico.

Perché il Pride non è solo una settimana di festa. È una comunità che vive e resiste tutto l’anno. Ed è proprio questo, ciò di cui possiamo essere fierə.

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